28 dicembre 2013

Stamina, Caterina e la matematica

In questi ultimi giorni del 2013 si discute molto di scienza. Può sembrare un bene, visto che in Italia di scienza non di discute mai, in realtà, per come lo si fa, sarebbe molto meglio che non lo si facesse per niente.

Si parla del caso Stamina: la procura di Torino sta accusando i promotori del metodo lanciato da Davide Vannoni non solo di non essere utile, ma di essere sostanzialmente una truffa. Negli ultimi mesi l'opinione pubblica si è molto accalorata sulla vicenda, mossa sostanzialmente da una ovvia e comprensibile solidarietà nei confronti di famiglie che le provano tutte per assicurare un futuro ai loro bambini malati.

E si è parlato molto anche della vicenda di Caterina, la ragazza padovana che si è beccata una sequela di insulti per aver detto che senza la sperimentazione animale sarebbe morta da tempo.



Più dei casi specifici la cosa deprimente è la qualità della discussione (ne ha parlato, molto bene, Christian Raimo, qui) che ci dice parecchio sulla qualità della cultura scientifica italiana.

"Io di matematica non c'ho mai capito nulla" è la formula autoassolutoria che molti di noi ripetono a se stessi, ma che sta alla base di questo dibattito surreale. Come se si discutesse di gusti personali o di innocue inclinazioni umane, anche quando si parla di scienza. Per di più della scienza che ha a che fare con la salute delle persone. Tutto diventa legittimo, tutto diventa declinabile alla difesa oltranzista delle proprie convinzioni. Quello che dice la comunità scientifica internazionale è derubricato nel migliore dei casi a trascurabili fissazioni, nel peggiore alla macchinazione delle lobby del farmaco.

Ora, che attorno a queste questioni si muovano interessi importanti e spesso poco trasparenti è fuor di dubbio. Ma questo sospetto dovrebbe invitarci a ragionare, a porci delle domande, a diffidare soprattutto di quelli che propongono soluzioni miracolistiche. Quelli che offendono Caterina, quelli che si affidano ciecamente al metodo Stamina mi hanno fatto pensare a nuove forme di superstizione. Sono i diretti discendenti di quelli che davano la caccia agli untori, che curavano pesanti patologie con i riti magici, che costringevano Galileo all'abiura. Il metodo scientifico, che pareva unanimemente e indiscutibilmente accettato, lo abbiamo masticato, digerito ed espulso. Proprio da lì.

Io, e lo dico anche con un certo orgoglio, ho fatto il classico, sono laureato in lettere e sono profondamente convinto della superiorità della cultura umanistica. (Chi non lo conoscesse si legga questo mitico discorso di David Foster Wallace, è un po' lungo ma vale la pena arrivare fino in fondo). Non è una forma di presunzione né, tantomeno, di svilimento della scienza, della matematica, degli specialisti. Anzi, ne è una nobilitazione.

La cultura umanistica, io credo, è superiore perché sta al di sopra, perché si sforza di guardare il mondo con spirito critico ed una visione complessiva. E per farlo non si affida alle superstizioni, non cerca di sostituire l'oggettività dei dati con le suggestioni, si serve con intelligenza degli strumenti di cui dispone. Primo fra tutti, la matematica.

Invece spesso si fraintende questo concetto, pensando che la superiorità della cultura umanistica sia la superiorità della chiacchiera, delle opinioni e delle convinzioni personali e indimostrabili. Che ha come effetto da una parte la delega cieca agli specialisti di alcuni argomenti della nostra esistenza, dall'altro la demonizzazione degli stessi specialisti quando ci dimostrano cose a cui non vogliamo credere.

D'altronde siamo il paese che una volta guardava Quark, adesso guarda Voyager.

20 dicembre 2013

Ancora sul brand di Bologna: una modesta proposta

Del nuovo logo di Bologna si è lungamente parlato e si è innescata una discussione molto interessante. C'è chi lo ama, considerandolo una geniale trovata, chi lo odia dicendo che è inefficace dal punto di vista grafico. Dico già, che non prendo minimamente in considerazione chi lo critica perché non ha riferimenti alla storia e alla tradizione di Bologna né ancora, meno, chi lo utilizza per sciocche strumentalizzazioni politiche sulla giunta del Comune.

Faccio, insomma, solo un discorso grafico. Io mi iscrivo a quelli che (pur riconoscendo la genialità della trovata e delle sue applicazioni) non sono convinti fino in fondo. Il perché l'ho spiegato qui e non ci torno sopra.

Ripensandoci meglio ho capito perché non mi convince. Me lo ha fatto osservare un'amica che lavora nel settore: è di Genova e quindi è scevra di ogni tipo di pregiudizio (positivo o negativo) bolognese, suppongo che non conosca l'assessore Lepore, probabilmente neanche il sindaco Merola. Magari conosce Cofferati (ma questo sarebbe tutto un altro discorso, non divaghiamo).

Il font.

Il risultato grafico del giochino di crea-il-tuo-logo su cui in questi giorni ci siamo tutti simpaticamente esercitati, secondo me è viziato dal fatto che la scritta che ci si affianca è bruttissima. Sì, insomma, è banale, è un font molto comune di quelli che si trovano su qualsiasi programma di videoscrittura. Il font però è importante. C'è chi sostiene che una buona parte del successo elettorale di Barack Obama derivi dalla scelta del font.

Non so se sia vero, ma nel caso del brand bolognese secondo me è esattamente quello che manca e che potrebbe trasformare in efficace una comunicazione che (mio personalissimo giudizio) è interessante, ma ancora inefficace.

La soluzione - e arrivo alla mia modesta proposta - è a portata di mano, coerente con il lavoro dei grafici triestini che hanno vinto la selezione, indicata, lì dalla stessa giuria che ha fatto la scelta. Fra i due lavori che si sono classificati al secondo posto, c'è il lavoro di un grafico che ha creato un font personalizzato di Bologna. Molto bello, secondo me e, evidentemente, anche secondo la giuria se lo ha ritenuto uno dei tre progetti migliori fra 500 e passa. E' esposto nella mostra in Sala Borsa (non sono riuscito a trovarne un link, se qualcuno ce l'ha e me lo segnala mi fa un favore, tnx)

E dunque, perché non utilizzare questo progetto per sopperire alle mancanze, o meglio, per integrare il logo vincitore con un tema che, evidentemente, i grafici vincitori non si erano posti? Dare a tutti quelli che scelgono di usare il brand anche un font univoco. (E che permetterebbe di creare anche delle magliette molto più carine, ma questa è una mia fissazione...)

Secondo me, fatte salve, anzi valorizzate, tutte le ragioni e lo spirito che stanno dietro al brand, integrandolo con un font personalizzato e univoco si potrebbe creare una strategia comunicativa ancora più interessante. O almeno fare una prova, visto che siamo ancora nella fase di partenza, per vedere l'effetto che fa.

19 dicembre 2013

Musica per sopravvivere al Natale

Una playlist natalizia un po' classica, un po' alternativa, un po' indie e un po' cazzona. Giusto per sopravvivere al Natale.




18 dicembre 2013

Logoboh...!

C'era una certa attesa e una certa curiosità in Sala Borsa a Bologna per la presentazione del nuovo logo della città.

E' un'idea carina: i grafici triestini che hanno vinto hanno immaginato un alfabeto grafico che permette a chiunque di scrivere cosa sia Bologna. C'è anche un sito, in versione beta, che permette di personalizzare il logo a piacimento. E' insomma l'idea di una città inclusiva, accogliente, che contiene un sacco di cose. Giustissimo e molto bello. Ma il risultato grafico, in estrema sintesi, è questo



Ora, siccome un logo serve per fare del marketing e non della filosofia, al di là delle buone intenzioni il risultato è a dir poco deboluccio. E' possibile immaginare questo logo sulle magliette, sulle tazze o sulle spille? Ce lo vedete come immagine per promuovere un festival culturale o una campagna di promozione turistica all'estero? Io no.

Una delle obiezioni che ho sentito più spesso è quella identitaria: nessun richiamo ai portici, alle torri, ai tortellini e lasciamo perdere il resto.

Ecco chi crede che Bologna sia nota in Europa per le torri non sa di cosa parla. Se ci sono dei turisti o delle persone che (grazie soprattutto alla benemerita Ryanair) prendono sempre più in esame la possibilità di trascorrere qualche giorno a Bologna non è per le torri. Le torri ci sono anche altrove. Ma è per l'immagine che questa città, a torto o a ragione, per colpa o merito, si porta dietro fuori dall'Italia. Quella di una città giovane, divertente, colta ma non supponente, piena di musica, con tanti concerti, con tanti appuntamenti culturali. Tutto quello che qualcuno chiama degrado, insomma. E, soprattutto, dove si mangia bene e ci sono un sacco di buone ragioni enogastronomiche per fermarsi qualche giorno.

Il logo, secondo me, non avrebbe dovuto parlare di torri, di portici né tantomeno di quegli orrendi cliché anni ottanta che vendono i negozi di souvenir intorno a piazza Maggiore. Avrebbe dovuto trasmettere l'idea di una città giovane, vivace, allegra, dove ci si godono i piaceri della vita. 

E avrebbe dovuto farlo con un'immagine netta e chiara di quelle (scusate se insisto su questo tema) che stanno bene sulle magliette.

L'idea di rinnovarsi, di aprirsi, di lasciarsi dietro una polverosa immagine che non corrisponde più a quello che è la città nel 2013 è lodevole, efficace, ottima. Ma forse bisognava farlo con un'idea grafica che si capisse alla prima occhiata. Non solo dopo aver letto la spiegazione.

13 dicembre 2013

Rimborsi elettorali: il 2xmille potrebbe anche convenire (a qualcuno)

Con il decreto sul finanziamento ai partiti approvato dal Consiglio dei Ministri, che abolisce i rimborsi elettorali e introduce la possibilità per i cittadini di contribuire con il 2 per mille dell'Irpef, i partiti, alla fine, potrebbero anche non rimetterci troppo rispetto al 2012. Ma dipenderà da loro: dalla loro credibilità e dalla capacità di coinvolgere i propri elettori, facendo loro capire di essere meritevoli di un finanziamento.

Certo, vista l'aria che tira, sarà difficile che un numero consistente di elettori-contribuenti decidano di versare una parte della propria Irpef ai partiti (se non lo fanno i soldi vanno allo Stato, non rimangono al contribuente), ma se ci riuscissero potrebbero avvicinarsi alle quote incassate nel 2012, già più che dimezzate rispetto ai rimborsi monstre degli anni precedenti.

Nel 2012 il montante dell'8 per mille è stato di un miliardo e 150 milioni circa. Auspicando che il Pil cresca, e quindi anche l'Irpef, si può ipotizzare che il due per mille dell'Irpef valga, spicciolo più, spicciolo meno, circa 300 milioni, circa il triplo dei rimborsi del 2012.

Facciamo finta (è un calcolo molto impreciso, gli appassionati di numeri mi perdoneranno, ma è tanto per avere un'idea di grandezza) che la media del contributo Irpef sia una decina di euro (circa l'80% dell'Irpef lo pagano dipendenti e pensionati e ovviamente ci sono grosse disparità).

Se il Pd, tanto per fare un esempio, convincesse i tre milioni che hanno votato alle primarie a devolvere al partito il 2x1000 dell'Irpef otterrebbe, più o meno, lo stesso ammontare dei rimborsi elettorali del 2012.

E ora chi paga?

Doverosa premessa: non sono né ideologicamente favorevole né ideologicamente contrario al finanziamento pubblico alla politica. Dipende dalle circostanze.

Le circostanze sono:

1) che nel 1993 un referendum ha sancito l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti dopo le malversazioni di Tangentopoli;
2) che il finanziamento è stato reintrodotto sotto forma di rimborso elettorale;
3) che con questi soldi (troppi) si è fatto di tutto e non solo finanziare la politica.
4) che il sentimento collettivo in Italia, basato più sull'incazzatura che sul ragionamento è profondamente contrario a finanziare la politica coi soldi di tutti.

Ma le circostanze sono anche che:

1) fare politica costa;
2) i soldi vanno trovati dove sono, quindi, principalmente, fra le grandi aziende;
3) che i partiti in Italia, salvo poche, forse una sola, eccezioni non sono trasparenti, non sono contendibili, sono anzi spesso padronali;
4) che abolendo il finanziamento pubblico ai partiti il finanziamento diverrà inevitabilmente privato. E che quindi i partiti consegneranno una parte delle proprie azioni e delegheranno una parte della propria iniziativa programmatica a chi li finanzia.

Poi, il finanziamento pubblico ai partiti si può anche abolire.

Ma senza:

1) una legge che imponga limiti e paletti ben precisi;
2) una che vincoli i partiti al rispetto di regole democratiche;
3) una che regolamenti l'attività di lobby;
4) la pretesa di una trasparenza totale.

Il rischio è che:

1) La politica dei partiti finisca in mano a non si sa chi;
2) I programmi sui vari temi vengano decisi dalle aziende che di quei vari temi si occupano (se dico slot machine, magari mi spiego meglio);
3) Il finanziamento illecito prosperi;
4) Il found raising nei partiti finisca per diventare più importante della proposta politica.

E quindi, se davvero vogliamo abolire il finanziamento ai partiti è necessario sapere

1) Chi paga chi;
2) Per cosa paga;
3) Per quali motivi lo fa;
4) In che maniera chi paga riesce a condizionare chi prende i soldi.

10 dicembre 2013

Una foto incredibile

Sono casualmente entrato in possesso di un oggetto incredibile. 
Credo che nessuno di voi ne abbia mai vista una. 
Questa è la ricevuta di un idraulico. 
Poterla tenere in mano, vi assicuro, è un'emozione indescrivibile



Me l'ha fatta sua sponte, senza che glielo dovessi chiedere.

Il numero progressivo, 212, dimostra che è abbastanza abituato a farle.

Sono commosso.

Dieci cose che ho capito dopo le primarie del Pd

1) Matteo Renzi ha poco tempo. Il Partito Democratico è delicato, la sua posizione rischia di logorarlo. Se si andasse al voto oggi probabilmente andrebbe incontro ad un trionfo clamoroso. Fra un anno potrebbe non essere più così.

2) Conseguenza del punto uno: la vita del governo è più breve. Forse brevissima. Considerando che alla fine di maggio ci sono le europee le eventuali elezioni politiche dovrebbero svolgersi, al massimo, entro l'inizio di aprile.

3) Serve, ovviamente, la legge elettorale. Gli alleati di governo potrebbero avere interesse a guadagnare tempo e quindi fare melina. Per fare la nuova legge elettorale, probabilmente servirà un patto con il diavolo.

4) Grillo ora ha paura. Le sue sparate degli ultimi giorni lo dimostrano. Se il Pd riprende le battaglie che hanno innescato la nascita del Movimento 5 Stelle, i grillini si riducono a percentuali irrisorie.

5) Hanno votato tre milioni di persone. Sono quelli che votano sempre. Il popolo di sinistra, il popolo delle primarie.

6) I due milioni di voti, personali, per Matteo Renzi devono fargli passare le paranoie, non deve aver paura che quelli che gli stanno intorno possano essere più bravi di lui. La sua legittimazione, a questo punto, è indiscutibile.

7) Il Pd è cambiato fondamentalmente. Il passaggio del dipartimento economico da Stefano Fassina a Filippo Taddei ne è la dimostrazione plastica.

8) La sinistra italiana avrà presto una nuova autorappresentazione di se stessa. Dove, tanto per fare un esempio, la parola meritocrazia non sarà una parolaccia.

9) Ovviamente questa nuova autorappresentazione non piacerà a tanti e questo non potrà che produrre dei contraccolpi che non saranno di semplice gestione.

10) Il successo clamoroso di Renzi nelle regioni rosse dimostra che la sinistra italiana è rimasta vittima del proprio successo proprio nelle zone dove è più forte ed organizzata.

04 dicembre 2013

La vera storia del tweet di Emiliano

Del tweet del sindaco di Bari Michele Emiliano se n'è parlato fin troppo. Ha risposto per le rime ad una studentessa che auspicava che il sindaco di Bari chiudesse le scuole. Si è scomodata la sociologia, la comunicazione, la politica, l'educazione. Non ci interessa. O meglio, ci interessa, ma abbiamo fatto un'altra cosa.

Siamo andati a cercare di capire come è nato e da chi è arrivato quel tweet che ha dato la stura al sindaco più twittero d'Italia a ritagliarsi la sua meritatissima celebrità.

Tanto per cominciare non è uno studente, ma una studentessa. Ha 17 anni e frequenta, ovviamente, una scuola superiore di Bari. E' una fan di Demi Lovato, di Glee, degli One Direction (ho messo un po' di link per gli over 19) e, come molti della sua età, passa le giornate su twitter. Nella sua carriera ha oltre 30mila tweet.


E' domenica ed a Bari sta piovendo. Ma non è questo il punto. Lei deve fare un sacco di compiti.



 Questo ce lo fa sapere dal suo letto, perché, ancora non si è alzata



Il peso della responsabilità scolastica, tuttavia, la opprime. E pensa (e scrive, ovvio): "magari Emiliano avrà chiuso le scuole per tre giorni" (da tanto che piove, no?). Sarebbe una salvezza straordinaria, il sogno di tutti gli studenti. Un impetuoso fenomeno atmosferico alla vigilia di una temuta interrogazione che fa chiudere le scuole e bomba libera tutti. Si alza alle 12.30.

Poi, probabilmente dopo un lauto pranzo, ha un sussulto.



 Però, poi niente, non ce la fa:



Il pomeriggio prosegue fra amenità varie, video musicali, amarezze personali, dialoghi con i sindaci.



Fino allo scambio di vedute con il suo sindaco





Ah, forse vi starete chiedendo come è andata a finire, visto che la storia la scrivono sempre i vincitori.

La ragazza ha cambiato nome utente twitter. E ha cancellato il tweet incriminato dal suo profilo.

Ah, il giorno dopo è stata interrogata a matematica


E anche con la grammatica italiana, pare di capire, non è che ce la caviamo granché.



28 novembre 2013

Foto messe lì a caso

Nei giornali italiani le foto spesso sono considerate un orpello, un abbellimento, un qualcosa da mettere lì a caso tanto per spezzare un po' le colate di inchiostro. Raramente c'è un'idea, una costruzione, un uso della foto per raccontare una storia o creare una suggestione. A cominciare dalle prime pagine.

Il confronto con i giornali stranieri è impietoso. E lo è ancora di più oggi, giorno in cui molti giornali stranieri si sono occupati di un argomento di politica italiana come la decadenza di Berlusconi.

Scorrendo le prime pagine dei giornali italiani su una notizia molto importante (e anche attesa, e che, quindi, in qualche modo poteva essere preparata) non ce n'è una che rimanga, che faccia storia, che colpisca. Questo perché la scelta delle foto è stata fatta in maniera un po' trascurata, privilegiando, probabilmente, le analisi e i commenti.

All'estero, invece, c'è chi fa queste cose

(International New York Times)

(El Pais, Spagna)

(El Periodico, Spagna)

(La Vanguardia, Spagna)

(Kleine Zeitung, Austria)




27 novembre 2013

Il giorno della decadenza: gli highlights

Tutto quello che bisogna ricordarsi di questa giornata.

(Suggerimenti e indicazioni per aggiornare gli highlights sono ben accetti)


25 novembre 2013

Tentazioni svizzere

Gli svizzeri hanno detto no. Non è passato il referendum che prevedeva che un manager non potesse guadagnare in un mese più di quello che l'operaio o l'impiegato meno pagato della sua azienda guadagna in un anno.

In compenso c'è già chi in Italia ha pensato che potesse essere una buona idea importare il format. 1:12 lo chiamano i giovani socialisti svizzeri. Ci sono deputati che già si sono messi in moto per vedere come provare a far qualcosa di simile anche qua: d'altra parte per ricette di questo tipo da queste parti il terreno è fertile

Che la sperequazione fra gli stipendi sia un problema è fuori di dubbio. Negli ultimi trenta-quaranta anni la forbice fra quelli più alti e quelli più bassi si è ampliata a dismisura producendo ineguaglianza.

Ma la ricetta svizzera che un pezzo di sinistra italiana pensa di importare ha poco senso. E' un vizio antico che ogni tanto riaffiora: quando non si riesce a far star meglio i poveri si prova a far stare un po' peggio anche i ricchi. Così i poveri saranno sempre poveri, ma un po' meno incazzati.

L'applicazione pratica del principio avrebbe poi una serie di complicazioni pratiche imbarazzanti, al di là del rischio concreto di perdere la possibilità di ingaggiare i migliori e della tentazione di assumere in forme ancora più precarie i dipendenti meno pagati per alzare artificiosamente l'asticella degli stipendi.

Forse, quindi, è meglio (e sicuramente è molto più di sinistra) cercare di capire come far guadagnare di più chi guadagna poco, piuttosto che far guadagnare di meno chi guadagna troppo.

23 novembre 2013

Musica per sopravvivere al ritorno di Forza Italia

Chi non c'era si è perso un mucchio di bella musica.
E anche un po' di musica brutta (va detto, per completezza di informazione)


21 novembre 2013

La memoria del pallone

Qualche anno fa, in occasione dei mondiali del Sudafrica, scrissi un po' di storie per un altro blog, le chiamai la memoria del pallone: storie che hanno a che fare con il calcio, ma non solo. Incrociano quelle di drammi, tragedie, dittature, momenti importanti della storia del novecento. Il calcio c'entra sempre.

JORGE CARRASCOSA, IL LUPO CHE DISSE NO AI COLONNELLI


Chiudete gli occhi e immaginate: alzare la coppa del mondo con la maglia della propria nazionale davanti al proprio pubblico. Chi da bambino non ha mai fatto un sogno così? Un sogno, appunto. Si sarebbe disposti a tutto per realizzarlo, A tutto, forse, o quasi. Perché c'è anche chi, a quel sogno, ha deciso di rinunciare, perché non era giusto e perché non ne valeva la pena.





Un difensore, due difensori, tre difensori, tac, tac, tac, poi anche il portiere, tac. Eccola là, forse una delle serpentine più belle della storia del calcio. Anche se non l'ha vista quasi nessuno. O meglio, quelli che l'hanno vista, per un motivo o per un altro, hanno preferito non raccontarla.




Che brutto modo per inizarsi al calcio. Forse ci sono persone più titolate di me per parlare dell'Heysel: feriti, superstiti, testimoni. O anche chi, davanti alla televisione, aveva un po' più d'esperienza e di cervello per capire quello che stava succedendo.




Non credo che mai così tanta gente tutta insieme abbia pianto per una partita di calcio. Forse è ingiusto parlare di tragedia visto che non è morto nessuno (a parte qualche decina di suicidi riconducibili all'episodio), ma quello che è successo il 16 luglio 1950 davanti a 180mila spettatori rimane una delle pagine più cariche di tristezza della storia del calcio di tutti i tempi.




Ci sono degli episodi, nella storia del secondo novecento, che tutti si ricordano dove si trovavano quando accaddero. Chi è nato nella Germania Est spaccata dal muro ricorda alla perfezione dove si trovava il 22 giugno 1974, quando al Volsparkstadium di Amburgo Jurgen Sparwasser tirò una pallonata contro il muro di Berlino.





Provate a prendere dei bambini, tutti di razze, colori, nazionalità e linge diverse e date loro un pallone. Fin dal primo rimbalzo, dal primo tiro, dal primo passaggio, parleranno una sola lingua, avranno una razza sola, non ci saranno più differenze fra loro se non quelle dettate dal campo, fra chi ha i piedi buoni e chi non ce li ha.




IL CALCIO STORICO FIORENTINO, L'INVENZIONE DELLA TRADIZIONE

C'è chi pensa che il calcio, o almeno un antenato del calcio, sia nato a Firenze, come dimostrerebbe il calcio storico fiorentino, ovvero le partite rievocative che nel giugno di ogni anno si svolgono, ordine pubblico permettendo, in piazza Santa Croce, mandando in visibilio i turisti giapponesi e un nugolo di iper appassionati locali.

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ARPAD WEISZ: IL PROFETA DEL CALCIO EUROPEO MORTO AD AUSCHWITZ

Era l'allenatore più vincente di tutti gli anni Trenta: un po' come Mourinho e Capello messi insieme, però molto più giovane. Un mito indiscusso del pallone, una gloria che aveva inventato un modo di giocare non bellissimo, ma concreto e vincente. La follia nazista non ne ebbe pietà.

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IRAN, DOVE IL CALCIO FA PAURA AL POTERE COME LA RIVOLUZIONE

In Iran il calcio fa paura al potere. Forse più della rivoluzione, forse più della politica, forse più delle manifestazioni popolari. Perché è un elemento che riesce ad unificare il popolo, a dargli un anelito di libertà e una ribalta mediatica mondiale.

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ZVONIMIR BOBAN, LE LACRIME DI UN CAPO ZINGARO

Un vero capo zingaro non dovrebbe piangere. Mai.
Tranne che in un caso: se a 20 anni inneschi da solo una guerra contro il mondo e a 30 la vinci. Allora le lacrime si possono anche perdonare.

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VITTORIO POZZO: IL CT SENZA ETICHETTE CHE IL CALCIO HA DIMENTICATO

Fascista, antifascista, monarchico, nazionalista, militarista? Difficile definire con un aggettivo secco la complessa personalità del protagonista assoluto del ciclo più vincente della nazionale italiana, gli anni Trenta dai due mondiali e dall'oro olimpico che sotto i vessili dell'Italia fascista portano la firma incancellabile di Vittorio Pozzo.

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Aleksey Klimenko, che vinse la partita con la morte


Un difensore, due difensori, tre difensori, tac, tac, tac, poi anche il portiere, tac. Eccola là, forse una delle serpentine piu' belle della storia del calcio. Anche se non l'ha vista quasi nessuno. O meglio, quelli che l'hanno vista, per un motivo o per un altro hanno preferito non raccontarla.

E anche per questo che si è un po' persa la memoria di Aleksey Klimenko, formidabile stella della Dinamo Kiev, l'uomo che con un pallone fra i piedi si è preso gioco della morte, l'uomo che con quella serpentina la morte l'ha trovata. Quelli che aveva dribblato erano meno ironici di lui, gli piantarono una scarica di mitra nella schiena e lo buttarono giù dal burrone ucraino di Babij-Jar, dove durante la seconda guerra mondiale furono gettate, più o meno, 100mila persone.

E' il 9 agosto 1942 e a Kiev e' una bellissima giornata di sole. Quel giocatore tracagnotto e un po' sgraziato balla con il pallone, salta come birilli tre difensori grandi, grossi e biondi, prende in giro il portiere, arriva sulla linea di porta e si ferma e si volta. Guarda il pubblico assiepato nello stadio Zenit di Kiev e anziche' appoggiare il piu' semplice dei gol rispedisce il pallone con un calcione verso la meta' campo. La partita finisce lì, e anche la storia della Start, una squadra che cercava la libertà, ma trovò la morte su un campo da calcio.

Ma andiamo con ordine. E' il settembre del 1941 e per le strade di Kiev passeggia pasciuto Joisf Kordik, mezzo ucraino mezzo tedesco, di professione panettiere. Personaggio di dubbia moralità, incline al compromesso e con uno spiccato senso degli affari. Buon commerciante, lo chiamano gli ufficiali delle Ss che stanno occupando la capitale ucraina, viscido collaborazionista lo definisce la maggior parte dei suoi concittadini nel vederlo non dico arricchirsi, ma campare bene in una città dove la quasi totalità della popolazione è ridotta alla fame e provata dagli stenti dei campi di lavoro.

Non fanno eccezione i calciatori della Dinamo e della Lokomotiv Kiev. E quando il nostro Josif incontra per strada Nikolaj Trusevich, portiere della Dinamo, un monumento vivente, coperto di stracci, divorato dalla fame, il suo cuore di tifoso cede a quello del mercante: lo ripulisce, lo sfama, gli dà un lavoro clandestino nella sua panetteria. Ad averci uno così in casa gli balza in testa un'idea, mettere insieme una squadra di calcio, per strappare alla miseria più nera le glorie del calcio nazionale. E così ne scova undici, li assume tutti nella sua panetteria e mette in piedi la Start.

Ma visto che è inutile avere una squadra così e non farla giocare, il nostro improvvisato impresario calcistico va dai suoi amici nazisti e li convince a metter su un mini campionato. Nella Kiev del 1942 organizzare squadre di calcio non è semplicissimo, ma alle divise grigie pare proprio una buona idea: la gente, distrutta dalla fame e dagli stenti con un montante odio antitedesco, avrà qualcosa con cui distrarsi.

Al campionato ucraino si iscrivono sei squadre: tre messe insieme alla meglio fra tedeschi e alleati, prigionieri rumeni e soldataglie ungheresi, una, fra i collaborazionisti ucraini, la mitica Start e la fortissima Flakelf, la squadra della Luftwaffe, ovvero l'aviazione tedesca.

Il campionato comincia. I giocatori della Start saranno anche debilitati ed emaciati, ma sono pur sempre dei campioni ed asfaltano senza problemi tutte le avversarie. La gente comincia ad appassionarsi ed a vedere in questa squadra in maglia rossa un sogno di libertà.

Fino a che, il 6 agosto 1942 non arriva la partita con la Flakelf. I gerarchi nazisti sono sicuri che i ragazzoni dell'aviazione non possano perdere contro i malnutriti ribelli ucraini, ma si sbagliano di grosso: 5-1 e a casa.

Ma la forza d'occupazione, i dominatori dell'Ucraina, a perdere non ci stanno e di lì a tre giorni, domenica 9 agosto 1942, fissano la gara di ritorno, cambiano in corsa regole ed etichetta, che tanto siamo in guerra. La Start (a cui oggi e' intitolato quello stadio), prima della partita, riceve la visita di un ufficiale delle Ss che intima loro di comportarsi da buoni sparring partner e lasciar vincere i calciatori in divisa. E quando Klimenko e compagni si ritrovano quello stesso ufficiale ad arbitrare la partita in uno stadio quasi tutto occupato dai tedeschi capiscono che c'è qualcosa di pericoloso nell'aria.

Avrebbero potuto perdere con onore e portarsi a casa la pelle. Ma erano tutti troppo ucraini, troppo comunisti e troppo innamorati del pallone per permettere a quella squadra senza immaginazione e senza talento di battere la leggendaria Start. Andarono in vantaggio con tre gol uno dietro l'altro, ma tale era la pressione che, con l'aiuto dell'arbitro, i nazi riuscirono a pareggiare.

Nella ripresa la Start segna altre due volte. E poco importa se nell'intervallo un altro ufficiale tedesco, ancora meno accomodante, avesse fatto capire le conseguenze se la Luftwaffe avesse perso: la gente di Kiev li amava, sperava in loro e, con loro, in un mondo migliore.

Quando mancano dieci minuti alla fine Klimenko ci mette la sua firma, con q
uella serpentina e quell'affronto che fanno capire all'arbitro che è meglio chiudere lì quella partita. Che intanto la Start, nonostante le sofferenze e la malnutrizione della guerra, su quel campo non avrebbe perso mai.

Qualche giorno dopo agenti della Gestapo li arrestarono, li portarono al famigerato campo di Siretz e li sottoposero ad indicibili torture. E nel gennaio del 1943, dopo un'azione dei partigiani, decisero di fucilarne un po' per rappresaglia. Morirono cosi' la talentuosa ala Kuzmenko, il portierone Trusevich e il grande Aleksey Klimenko.

Solo molti anni dopo, i pochi sopravvissuti, troveranno il coraggio di raccontare quella storia, temendo di essere accusati di collaborazionismo solo per aver giocato quella partita di calcio contro la morte per amore della la libertà.

La strage dell'Heysel, il mio calcio è cominciato lì


Che brutto modo per iniziarsi al calcio. Forse ci sono persone più titolate di me per parlare dell'Heysel: feriti, superstiti, testimoni. O anche chi, davanti alla televisione, aveva un po' più d'esperienza o di cervello per capire quello che stava succedendo: il 29 maggio 1985, prima di una finale di Coppa dei Campioni fra Juventus e Liverpool morirono 39 tifosi, quasi tutti italiani. Vittime di una violenza cieca e delirante e di un capolavoro di inefficienza e disorganizzazione.

Io avevo sei anni, e la tragedia dell'Heysel è il mio primo ricordo 'pubblico', che tiene insieme sia il calcio sia una grande sciagura. Da quando esiste la tv, diciamo da quelli che oggi hanno poco meno di sessant'anni in poi, ognuno ha un primo ricordo di un evento 'pubblico': chi si ricorda l'uccisione di Kennedy, chi lo sbarco sulla luna, chi l'omicidio di Moro o di Falcone. Provate a pensarci. Ognuno ha il suo e quasi sempre e' uno di quei fatti che hanno, nel bene o nel male, segnato un'epoca.

E questo non perché i bambini abbiano un maggior 'senso della notizia', ma perché di fronte alla tv, anche se non si capisce bene quello che succede, si percepisce uno stato di tensione di chi commenta quelle immagini e di chi ci sta accanto. Ci si affaccia timidamente, per la prima volta, al mondo degli adulti. Si prova a capire e a chiedere il perché di cose che spesso un perché' non ce l'hanno.

Come quella drammatica notte di maggio a Bruxelles. Era una partita, ok, una partita. La partita dell'anno, forse. La finale della coppa dei campioni. Il calcio, in qualche modo, nella mia vita c'era già entrato, l'avevo già visto, avevo già provato a rincorrere un pallone. Ma tutta quella gente, quel casino, quei morti, quei feriti, che diavolo potevano entrarci con il pallone?

La Juventus di Boniek e Platini, allenata da Trapattoni, affrontava in finale il Liverpool che era arrivata fin li' strapazzando le avversarie. La Uefa aveva scelto per giocare la partita dell'anno uno stadio vergognoso, l'Heysel, appunto, che adesso e' stato rifatto e intitolato a re Baldovino. Muretti cadenti, strutture fatiscenti, recinzioni pericolanti, mancanza di vie d'uscita, un disastro.

Ma non basta. L'organizzazione divide lo stadio in settori: da una parte i temibili, ferocissimi hooligans del Liverpool, spauracchio d'Inghilterra e rifugio alcolico e disperato di tutti gli sfigati della Gran Bretagna tatcheriana dei ruggenti eighties e del s'arrangi chi può. Dall'altra gli ultras bianconeri. Qualche violento c'era anche li', chiaro. Succede peroò che una parte consistente di tifosi, quelli non organizzati, quindi quelli più tranquilli, padri di famiglia, gente di mezz'età, trovi posto in un settore vicino alla gabbia degli hooligans di Liverpool, nel famigerato 'settore Z'. Primo capolavoro dei belgi.

Gli hooligans hanno tutto il giorno per riempirsi di birra, per fare casino nel centro di Bruxelles, sottovalutati dalla polizia belga. Quando entrano allo stadio sono in un altro mondo e si trovano accanto un gruppo di tifosi avversari, separati da un paio di vigili urbani e da una rete da pollaio che alla prima carica va giù. L'orda si abbatte nel settore Z, gli occupanti, ovviamente, non rispondo alla carica e si ritirano da una parte, crolla un muro e chi cerca rifugio nel terreno di gioco viene caricato dalla polizia che intervenne a sedare i facinorosi solo mezz'ora dopo: secondo capolavoro dei belgi.

Ma la partita si deve giocare. Perché? Boh. ''Al 99,9 per cento - ha raccontato Zibi Boniek - sapevamo tutto: dei morti, della dinamica, della cappa esplosiva che gravava sullo stadio. Noi non volevamo giocare. E il Liverpool neppure. Ce lo ordinarono. Ci dissero che, se non fossimo scesi in campo, sarebbe stato peggio. I telefonini non esistevano, e molti degli juventini sugli spalti, loro sì, non avevano idea di quante fossero le persone morte ammazzate nel settore Z. Uno dell'Uefa mi fece: se vi rifiutate, lo impareranno''.

Partita, ovviamente bruttissima. Vince la Juve con un rigore fischiato a Boniek per un fallo due metri fuori area. Trasforma Michel Platini, all'epoca non pasciuto capoccia del calcio, ma poeta del pallone, che poi si lascerà anche andare ad una contestatissima esultanza. Si è giocato - si disse - per evitare la guerra civile, ma alla fine ci saranno 39 morti e 600 feriti.

Gli inglesi saranno squalificati per cinque anni dalle Coppe Europee, su proposta del governo di Londra. Gli hooligans ne combineranno altre, soprattutto all'estero, ma l'Inghilterra dichiarerà loro guerra: pene severissime, telecamere a circuito chiuso, violenti sbattuti in galera, stadi completamente rifatti. Adesso gli stadi inglesi sono posti tranquilli, dove le famiglie portano i bambini. E quando nei templi del calcio italiano, nonostante tutte le leggi che sono state varate, si sentono scoppiare le bombe, non rimane che invidiare uno Stato che aveva problemi infinitamente più grossi e che li ha risolti.

Il calcio, senza morti, senza feriti, senza scontri, senza armi è molto più bello. O almeno questa era la conclusione a cui credeva di esser giunto quel bambino che dall'Heysel, attraverso la tv, si era affacciato al mondo degli adulti.

Il calcio storico fiorentino, l'invenzione della tradizione

   Ma il calcio, chi l'ha inventato? Credo che oggi nessuno abbia davvero più un dubbio sul fatto che la patria del nostro amato gioco sia l'Inghilterra. Il calcio, oltre che uno sport, è un fenomeno sociale contemporaneo europeo, che cresce e che si sviluppa a braccetto con la rivoluzione industriale: l'Inghilterra li esporta entrambi, di pari passo.

   Eppure c'è chi pensa che il calcio, o almeno un antenato del calcio, sia nato a Firenze, come dimostrerebbe il calcio storico fiorentino, ovvero le partite rievocative che nel giugno di ogni anno si svolgono, ordine pubblico permettendo, in piazza Santa Croce, mandando in visibilio i turisti americani e giapponesi e un nugolo di iper appassionati locali.

   Il calcio storico fiorentino, però, non è nient'altro che l'invenzione di una tradizione, che ha radici storiche fragilissime: la sua storia ci dice poco o niente su come si sia sviluppato il gioco del pallone, ci dice molto di più, sul rapporto che fra la fine degli anni Venti e l'inizio dei Trenta del Novecento si era sviluppato fra un fascismo che cercava di normalizzarsi e di attirare consenso e le tradizioni popolari italiane che hanno permanenze spesso secolari e che mal si conciliano con politicizzazioni forzate, di ogni tipo.

   Il fascismo, fin dalla sua nascita, ha una vocazione nazionalista e unificatrice. Una tendenza che mal si concilia con i mille campanili, i mille particolarismi, le mille usanze di cui è ancora fatta l'Italia e che in quegli anni era molto più accentuata: non esisteva la televisione, il tasso d'istruzione era molto basso e nelle campagne, soprattutto nel Meridione, la permeabilità della politica era molto bassa.

   Gli storici che hanno studiato la mentalità degli italiani sotto il fascismo, come Francesco Iovine, ci raccontano, ad esempio, che l'adesione popolare alle feste nazionali fasciste era all'insegna della freddezza, quando non alla totale estraneità della gente che si riconosceva, invece, nelle feste religiose, in quelle del Santo Patrono, nelle feste dell'Uva, del Grano, del Maggio, riti e tradizioni di lunghissima durata.

   Il fascismo, dopo un primo tentativo di stroncare queste feste a vantaggio di quelle nazionali, capisce che deve trovare un compromesso: le feste del Santo Patrono non si possono eliminare e la tendenza unificatrice, dal punto di vista del consenso, non paga. Per questo decide di far rientrare il localismo dalla finestra , cercando di smussare, ove possibile, gli aspetti sgraditi delle feste tradizionali e cercando di creare un folclore con richiami alla tradizione, ma dagli accenti smaccatamente fascisti.

   E' in questo contesto che il fascismo capisce che deve impegnarsi per reinventare la tradizione, passaggio fondamentale per non perdere di vista il contatto con la periferia. E se l'operazione di mettere in camicia nera il Palio di Siena riesce poco (il Palio ha una tradizione antichissima, ritmi immutabili, appartenenze rigorose, stilemi politici che sfuggono completamente ad una concezione moderna), in altre città il gioco riesce con un certo successo.

   Nascono così in questi anni la regata storica delle gondole a Venezia, il gioco del Ponte a Pisa (inventato di sana pianta nel 1935), la giostra del Saracino ad Arezzo (basato su un documento chissà come ritrovato nella biblioteca cittadina).

   A Firenze si compie la medesima operazione. Ne è il protagonista indiscusso Alessandro Pavolini, ras della città, nonché uno dei politici più intelligenti della giovane classe dirigente fascista. Sarebbe stato lui stesso a scrivere, di suo pugno, il regolamento del gioco.

   Oggettivamente l'idea di Pavolini è piuttosto brillante. Firenze è una città carica di storia e i secoli precedenti sono stati raccontati per filo e per segno da decine di cronisti che hanno annotato praticamente tutto. Con il calcio storico si va a pescare in una cultura che è antica e modernissima al tempo stesso (la Fiorentina e' nata nel 1926 e il calcio si sta diffondendo in maniera rapidissima e travolgente). E in più si riesce a far passare un messaggio nazionalistico e xenofobo: ''ma quali inglesi? Il calcio è nato in Italia, il calcio è nato a Firenze''. Un piccolo capolavoro.

   Ci si mette quindi alla ricerca di uno straccio di documentazione: giochi con la palla, nel Medioevo, si svolgevano in tutta Europa. I fiorentini, grandi mercanti e viaggiatori, importano una di queste usanze da chissà quale latitudine, ma probabilmente solo sul finire del Quattrocento il gioco si diffonde, in qualche modo, a Firenze.

   La scintilla a cui i solerti ricercatori fascisti si attaccano e' una testimonianza cinquecentesca: nel 1530, quando la città era assediata dalle truppe di Carlo V che di li' a poco metteranno per sempre fine alle libertà repubblicane, si racconta che i fiorentini, in segno di scherno e noncuranza, si misero a giocare a palla in piazza Santa Croce di fronte agli assedianti.

   Tanto' basto, nel quarto centenario della ricorrenza, per metter su una rievocazione che si è trascinata fino ai giorni nostri. Divisa la città in quattro quartieri senza né identità né appartenenza, le partite dei calcianti, con un regolamento più simile al rugby che al calcio, si sono spesso trasformate in zuffe, risse e regolamenti di conti, tanto da far sospendere i tornei nel 2007 e nel 2008 ed apportare pesanti modifiche al regolamento per costringere i giocatori a tenere comportamenti più urbani.

   Un gioco, insomma, che può essere anche divertente, ma che con la Firenze del Cinquecento, con l'assedio di Carlo V, con il calcio inglese dell'Ottocento e con i suoi più illustri eredi del ventunesimo secolo non ha veramente quasi niente a che fare.

Vittorio Pozzo, il ct senza etichette che il calcio ha dimenticato

Fascista, antifascista, monarchico, nazionalista, militarista? Difficile definire con un aggettivo secco la complessa personalita' del protagonista assoluto del ciclo piu' vincente della nazionale italiana, gli anni Trenta dai due mondiali e dall'oro olimpico che sotto i vessilli dell'Italia fascista portano la firma indelebile di Vittorio Pozzo.

   La retorica fascista, e poi quella antifascista, ha cercato di mettere sul commissario tecnico della nazionale delle etichette semplificative: Pozzo uomo dei gerarchi, Pozzo repubblichino, Pozzo antifascista a servizio degli alleati. Benché il lato dei suoi rapporti con il potere fascista sia uno dei punti più oscuri della biografia di questo grande allenatore, la personalità del tecnico due volte campione del mondo, forse un po' dimenticato proprio per la difficoltà di iscriverlo in una precisa categoria, è da ricercare nel suo più grande paradosso: allenatore modernissimo per la sua preparazione e le sue intuizioni tattiche, uomo all'antica, quasi risorgimentale nel suo nazionalismo e nel suo attaccamento a valori di cui il fascismo indubbiamente si è servito per andare al potere e per rimanerci per vent'anni.

   Intendiamoci: non è che nell'Italia fascista, che aveva capito benissimo la funzione del calcio come aggregatore di masse e strumento di glorificazione del regime, si potesse fare il ct della nazionale manifestando apertamente simpatie antifasciste. Pozzo aderì, forse suo malgrado ma sicuramente senza opporsi né farsi troppe domande, a quelle simbologie di cui lo sport fascista era intriso: il saluto romano prima della partita, 'Giovinezza' cantato insieme agli inni nazionali, perfino la storica partita dell'Italia in completo nero, nei quarti di finale dei mondiali 1938 contro la Francia a Parigi, diventata quasi il simbolo del calcio fascista.

   Tra le qualità di Pozzo, oltre ad una grande preparazione tattica maturata in gioventù in giro per l'Europa, c'erano anche diplomazia e astuzia, ingredienti fondamentali del suo successo. Che gli sono servite anche per tenere le sue squadre sempre in perfetto equilibrio sul sottilissimo crinale fra sport e politica.

   Se pure Pozzo, come affermò nella sua biografia uscita negli anni Sessanta, non fu mai iscritto al partito fascista, fu raramente messo sotto pressione dal regime e le sue tecniche motivazionali nazionaliste e militariste sono una spia di quanto le idee del regime avessero permeato il calcio per poter giungere alle masse. E la stampa dell'epoca contribuì a crearne una mitologia, tanto che, a guerra finita, Pozzo fu di fatto allontanato dalla nazionale in quanto ritenuto troppo compromesso con il fascismo.

   Dirigente della Pirelli, tenente degli alpini nella prima guerra mondiale, profondo conoscitore della tattica e delle dinamiche manageriali del calcio, Pozzo divenne per la prima volta commissario unico della nazionale nel 1912: e lo fu a più riprese per tutti gli anni dieci e venti, da solo o in compagnia.

   Il suo periodo d'oro cominciò pero' nel 1929 quando il capo del calcio fascista, Leandro Arpinati, lo chiamo nuovamente a dirigere la nazionale. Nel giro di un decennio Pozzo vinse tutto: due coppe Internazionali (l'antenato del campionato europeo) e soprattutto due campionati del mondo: il primo, giocato in casa, davanti ai gerarchi estasiati, nel 1934. Quattro anni dopo colse il bis: impresa mai riuscita a nessun allenatore e solamente ad un'altra squadra, il Brasile di Pelé nel 1958 e 1962. In mezzo il sigillo dell'unica medaglia d'oro olimpica del calcio italiano, nella Germania nazista del 1936.

   Applicatore di schemi senza esserne schiavo per non sacrificare troppo l'estro dei suoi giocatori più dotati (fra cui Giuseppe Meazza), Pozzo introdusse anche alcuni aspetti che i ct e gli allenatori in generale seguono ancora oggi, come i ritiri prima di una competizione. Pozzo pretendeva che gli alloggi fossero spartani, come le caserme per gli alpini. E si racconta che per prepare le partite parlasse ai suoi giocatori della resistenza del Piave.

   L'Italia fascista si limitava a tollerarlo perche', pur non avendo aderito con entusiasmo al regime fascista, era comunque un grande vincente. L'Italia postfascista non lo ha celebrato come avrebbe meritato (vi viene in mente uno stadio importante a lui intitolato?) perché, pur essendo un grande vincente, era compromesso con il regime fascista.

   Pozzo, come ha ricordato Giorgio Bocca era un fascista di regime, ovvero ''uno che apprezzava i treni in orario ma non sopportava gli squadrismi, che rendeva omaggio al monumento degli alpini ma non ai sacrari fascisti''. E in un paese dove siamo abituati a dare etichette a tutti per non doverci sforzare di capire le cose, due mondiali e una medaglia d'oro olimpica sono finiti un po' fra ciò che è più comodo non ricordare troppo.

Iran, dove il calcio fa paura al potere come la rivoluzione

   In Iran il calcio fa paura al potere. Forse più della rivoluzione, forse più della politica, forse più delle manifestazioni popolari. Perché è un elemento che riesce ad unificare il popolo, a dargli un anelito di libertà e una ribalta mediatica mondiale.

   L'ultimo caso è avvenuto il 17 giugno del 2009: quando a Seul la nazionale iraniana si giocava contro la Corea del Sud un biglietto per i mondiali in Sudafrica. L'1-1 finale ha qualificato la Corea e mortificato le speranze iraniane, ma quella partita è rimasta nell'immaginario collettivo non solo nazionale e quelle immagini hanno fatto il giro del mondo per un altro motivo.

   Pochi giorni prima, in Iran, si erano svolte le elezioni presidenziali. A contendere la leadership al presidente uscente Ahmadinejad c'era Mir-Hosein Mussavi, primo ministro negli anni ottanta, che si candida con una piattaforma più liberale e democratica. Il 12 giugno il presidente uscente annuncia la sua rielezione, ma Mussavi e i suoi sostenitori contestano l'esito del voto per i brogli. Mussavi invita chi l'ha votato a festeggiare la vittoria. Internet permette alle notizie di diffondersi velocemente ed agli attivisti di organizzarsi dribblando la censura. 'Where is my vote?' diventa in pochi giorni uno slogan diffuso e ripetuto in ogni parte del mondo.

   Il verde e' il colore di quella campagna e in quel giorno, a Seul, sicuri di essere ripresi della telecamere, otto calciatori della squadra iraniana scendono in campo con polsini e fasce verdi. La protesta silenziosa dei calciatori iraniani ha subito una vasta risonanza in tutto il mondo, ma ce l'ha soprattutto a Teheran, dove le fasce verdi sono comparsi sugli schermi davanti ai quali milioni di connazionali seguivano con trepidazione l'esito dell'incontro.

   A guidare la protesta il capitano della nazionale, Mohammed Ali Karimi, che si presenta in campo a Seul con due polsini verdi, imitato da Massud Shohkjaei, il giocatore che ha segnato il gol dell'inutile pareggio iraniano. Fra il primo e il secondo tempo interviene la Federcalcio iraniana e nessuno, fra i giocatori, si ripresenta in campo con i simboli verdi. Ma il sasso nell'etere ormai è lanciato e le immagini di quella partita, modesta dal punto di vista tecnico, importantissima da quello simbolico, si sono ormai già diffuse in tutto il mondo come ennesimo grido di dolore del popolo iraniano e della sua richiesta di democrazia e di liberta'.

   Il calcio, in Iran, si è diffuso soprattutto negli anni Trenta, grazie allo Shah Reza Khan. Mentre nei villaggi chi indossava un paio di pantaloncini rischiava la lapidazione da parte dei mullah, lo Shah creò campi da calcio su terreni confiscati alle moschee. Reza Khan non era solo un grande appassionato di calcio, ma dette vita ad una campagna di modernizzazione del paese, potenziando le infrastrutture, mettendo al bando le leggi islamiche e modernizzando i costumi in chiave occidentale.

   Ed e' cosi' che, per la restaurazione islamica, a cominciare dagli ayatollah che presero il potere nel 1979, il calcio è un po' come il fumo negli occhi e non solo perché si tratta di un gioco che si pratica con troppa pelle scoperta, ma perche' è il germe più pericoloso di quella occidentalita' che hanno cercato di scardinare con tutte le loro forze. Se sono riusciti, in qualche modo, a mettere al bando cinema e musica pop, e' stato anche per loro impossibile eliminare dal cuore degli iraniani la passione per il calcio.

   Che spesso, soprattutto in occasione dei successi della nazionale, si è accompagnata con dimostrazioni e proteste politiche. Il caso più clamoroso è stato forse la qualificazione ai mondiali di Francia 1998, che l'Iran guadagnò con uno storico pareggio in trasferta con l'Australia. Per le strade di Teheran cominciarono i festeggiamenti: in mezzo a centinaia di migliaia di tifosi anche molte donne che rivendicavano il diritto di gioire con il resto del paese.

   Quando, tre giorni dopo quella partita, gli eroi del pallone ritornano nella capitale, accolti festosamente nello stadio principale dai tifosi, ai cancelli si accalcano cinquemila donne che gridano: ''Siamo anche noi parte di questa nazione, e abbiamo il diritto di festeggiare! Non siamo formiche!''. La polizia ne fa passare qualcuna, poi non riesce a contenere l'ondata e, per la prima volta, migliaia di donne troveranno spazio sugli spalti dello stadio accanto agli uomini.

   Ai mondiali francesi, ad ogni partita dell'Iran gli oppositori in esilio organizzarono manifestazioni ed esposero striscioni politici. A poco servì la repressione dei servizi segreti che provarono ad infiltrarsi fra i tifosi per lanciare cori contro Israele e contro gli Usa e che, in patria (quando venne trasmessa per la prima volta una partita di calcio dalla rivoluzione del 1979) censurò le immagini delle contestazioni che furono viste in tutto il mondo, proponendo scene di tifosi vestiti pesantemente, che certo erano poco credibili nel caldo giugno francese.

   Con ogni partita di calcio che passa sulle televisioni iraniane, entra nel paese un pezzetto di Occidente, un pezzetto di libertà. I festeggiamenti per le vittorie sportive si trasformano spesso in atti dimostrativi contro il regime di Ahmadinejad difficili da interpretare e da stroncare. E così, in faccia a una delle repressioni più feroci del mondo, speranza e libertà sono affidate anche al pallone.

Jurgen Sparwasser, una pallonata contro il muro


Ci sono degli episodi, nella storia del secondo novecento,  che tutti si ricordano dove si trovavano quando accaddero. Chi e' nato nella Germania Est spaccata dal muro ricorda alla perfezione dove si trovava il 22 giugno 1974, quando al Volksparkstadium di Amburgo Jurgen Sparwasser tirò una pallonata contro il muro di Berlino. La Germania Est vinse il suo primo e unico incontro contro la Germania Ovest che di lì a qualche giorno si sarebbe laureata campione del mondo.

Sulla sua tomba (per carità, lunga vita al caro Sparwasser...) probabilmente di date ne scriveranno tre: oltre a quella di nascita e di dipartita ci sarà anche quella di quel giorno, quando il muro di Berlino 13 anni dopo la sua costruzione, 15 anni prima della sua caduta, vibrerà sotto i colpi di una pallonata, calciata con potenza da quella mezz'ala magra e talentuosa che porto alla Ddr quello che è passato alla storia come il Bruder-duell, lo scontro fratricida. A Cesena c'é anche chi se lo ricorda per una scazzottata in campo con Oddi e Boranga nell'unica storica apparizione dei romagnoli in coppa Uefa, ma questa sarebbe tutta un'altra storia.

A quei tempi la Germania Ovest era uno squadrone. Quattro anni prima era arrivata in semifinale in Messico, sconfitta in quell'Italia-Germania 4-3 che ormai è quasi un luogo comune dello sport. Nel 1972 era stata campione europea e nel maggio del 1974 lo straordinario Bayern Monaco di Beckenbauer, Breitner e Muller aveva vinto la Coppa dei Campioni all'Heysel. Ma anche il calcio della Germania Est, fino ad allora quasi inesistente, stava cominciando ad affermarsi. Qualche giorno prima della vittoria del Bayern il Magdeburgo, la squadra di Sparwasser, aveva vinto la Coppa delle Coppe sbarazzandosi in finale del Milan di Rivera.

E la nazionale non era più composta solo da scarti dell'atletica e delle altre discipline, ma da giocatori che potevano dire la loro sul palcoscenico internazionale. Nel girone di qualificazione supera la Romania e si guadagna un visto per attraversare il muro e andarsi a giocare il mondiale in casa dei cugini dell'ovest.

Le palline colorate dell'urna dell'Uefa, a dicembre 1973, si divertono a dare uno scossone alla storia, mettendo di fronte le due Germanie nello stesso girone, insieme a Cile e Australia. Tutti se lo sarebbero evitato volentieri: due anni prima, nelle olimpiadi di Monaco c'era stata la strage di Settembre Nero e la banda Bader-Meinhof imperversava minacciando, di tanto in tanto, di imbottire d'esplosivo gli stadi del mondiale.

Come se non bastasse in quella primavera di trionfi del calcio teutonico i rapporti diplomatici fra Est e Ovest precipitano: il 6 maggio il cancelliere tedesco Willy Brandt, reduce dai successi della Ostpolitik che avevano segnato un riavvicinamento fra le due Germanie, si dimette in seguito alla scoperta di una rete spionistica della Stasi dentro le istituzioni della Germania Ovest. Un episodio che farà saltare, per ragioni diplomatiche anche la supercoppa europea che avrebbe dovuto veder di fronte Bayern e Magdeburgo.

Non era il caso, insomma, di aggiungere tensione anche con una partita di calcio. Ma è in quel clima, il 22 giugno, che si va in campo. Fra i 60mila spettatori ci sono 8.500 tedeschi dell'Est che hanno ricevuto un permesso giornaliero per andare in treno ad Amburgo. Le due squadre sono entrambe qualificate alla fase successiva, si deve solo decidere chi vincerà il girone. Nel primo tempo succede poco: la tensione e l'atmosfera paralizzano un po' tutti. Nella ripresa la Ddr comincia a crederci e al 78' succede l'impensabile: Sparwasser in area, salta Berti Vogts e scarica in rete incrociando di destro. Beckenbauer carica i suoi invitandoli alla riscossa dicendo che ''non è successo niente''. Ma come si sbagliava...

La sconfitta, paradossalmente, aiuta la Germania Ovest. Sparwasser e compagni finiscono in un girone semifinale con Brasile, Argentina e l'Olanda del calcio totale. Gli altri si beccano Polonia, Svezia e Jugoslavia e volano in finale, che vinceranno poi, proprio contro quell'Olanda di Cruyff che ha rivoluzionato per sempre il modo di giocare a pallone. Ma che nulla poté contro l'organizzato calcio tedesco.

Sparwasser torna in patria ed è acclamato come un eroe: al suo gol la goffa propaganda di Honecker attribuisce significati politici e mistici: all'eroe della lotta di classe, come ai compagni di squadra, va un premio di 2.500 marchi per il passaggio del turno.

Ma il colpo più forte al muro Sparwasser glielo darà 14 anni dopo: è il 1988 e lui insegna pedagogia dello sport all'Università di Magdeburgo, ma è in contrasto con le autorità locali che vorrebbero farlo diventare allenatore contro la sua volontà. Quando la moglie ottiene un visto per andare in occidente lui decide di seguirla. La Stasi si fa dribblare peggio di come avevano fatto Berti Vogts e la nazionale della Germania Ovest e Sparwasser salta il muro.

Proprio lui, l'eroe della rivincita operaia sul capitalismo, il simbolo del socialismo pallonaro, tradisce un sistema che già sta scricchiolando. I funzionari del partito si incazzano moltissimo e la fuga di quel signore di mezz'età chi si portava dietro una delle pagine più gloriose dello sport delle regime diventa un caso internazionale. Ma è questione di poco: dopo un anno tanti Sparwasser perforeranno il muro come una difesa di brocchi. La Germania diventerà una sola e di Bruder-Duell non ce ne saranno mai più. L'unico che c'e' stato l'ha vinto lui, Jurgen Sparwasser. E l'ha vinto due volte.

La Asi Superga, la piccola nazionale dell'integrazione

Provate a prendere dei bambini, tutti di razze, colori, nazionalità e lingue diverse e date loro un pallone. Fin dal primo rimbalzo, dal primo tiro, dal primo passaggio, parleranno una sola lingua, avranno una razza sola, non ci saranno più differenze fra loro se non quelle dettate dal campo, fra chi ha i piedi buoni e chi non ce li ha. E siccome a giocare a pallone si ridiventa bambini, che il calcio sia uno straordinario fenomeno di integrazione non lo scopriamo noi.

Purtroppo a far notizia sono gli altri e, giocoforza, si parla sempre di loro: di quelli scemotti che fanno degli urlacci quando vedono in campo un giocatore nero, o quelli che, quando sono in campo, si dimenticano di essere pagati milioni e di essere un esempio per milioni di ragazzini, si offendono e si sputano.

Ma il calcio, è sempre bene ricordarselo, non e' mica solo quello che si vede in televisione. Sparsi per il mondo ci sono campi polverosi, ci sono le strade, ci sono palloni fatti di stracci, a volte anche dei barattoli. C'è quello spirito, quella tensione, quello stupore che, nonostante tutto, qualunque cosa succeda, ci fa amare alla follia questo splendido gioco.

E così, sui campi di provincia, sorgono le squadre composte dagli immigrati: ci sono squadre marocchine, albanesi, slave, sudamericane, che nei campionati amatoriali provano a tenere alta la loro bandiera.

Se c'è qualcuno che mal li tollera è bene che si ricordi che fino a qualche decennio fa al loro posto c'eravamo noi. Qualche annetto fa, il mio giornale di allora mi commissionò una serie di pezzi sulla storia dell'emigrazione italiana. Incontrai un signore, Mario Maffucci, che mi raccontò una storia molto bella, che mi è sempre rimasta dentro.

Un po' di contesto: subito dopo la seconda guerra mondiale, un po' in tutta Italia il lavoro manca. In molte fabbriche vengono licenziati decine di migliaia di lavoratori. Molti dei quali solo perché in tasca hanno un giornale che non piace ai padroni o perché sono stati sentiti sussurrare la parola 'sciopero'. Sulla montagna pistoiese la questione è ancora più pesante: la Smi di Campo Tizzoro costruiva infatti munizioni ed a guerra finita il suo fabbisogno di manodopera cala drasticamente.

Qualcuno dei licenziati stringe i denti, si mette in proprio e contribuisce a creare la spina dorsale di quella famosa terza Italia, piccole e piccolissime aziende, dinamiche e coraggiose, sulle quali si fonderà, qualche anno dopo, il boom economico. Altri, invece, prendono la via dell'emigrazione. In quegli anni la meta preferita è la Svizzera, un po' perché vicina, un po' perché le fabbriche avevano bisogno di manodopera, possibilmente con un po' d'esperienza come quella italiana. La Smi sigla un accordo con la Von Roll di Gerlafingen (cantone di Soletta) e gli operai se ne vanno tutti (o quasi) lì.

Se si ascolta uno di quelli che ha vissuto quell'esperienza, ci si rende conto che le condizioni, l'atteggiamento dei locali, le umiliazioni, non erano poi così diverse a quelle che ci sono oggi in Italia. Ma uno dei veicoli d'integrazione dei giovani italiani in Svizzera fu, come adesso per molti africani e est europei, il gioco del calcio.

Nell'immediato dopoguerra vanto e orgoglio dell'Italia intera (anche quella di fede non granata) era il grande Torino di Valentino Mazzola, la cui leggenda si spezzò tragicamente con un drammatico incidente aereo avvenuto a Superga il 6 maggio 1949. La strage è ancora ben viva nell'immaginario collettivo nazionale, e all'epoca suscitò una vastissima ondata di commozione generale: anche, e forse ancora di più fra gli italiani all'estero.

 Fu così che gli operai italiani di Gerlafingen decisero di metter insieme una squadra di calcio e darle proprio il nome del luogo dove Loik, Gabetto e gli altri campioni erano scomparsi. Soldi però ce n'erano pochini. Con la proverbiale determinazione dell'emigrante non si persero d'animo, presero carta e penna e scrissero una lettera a Torino. La società granata inviò loro scarpe, magliette e quello che serviva per cominciare: era nata l'Associazione sportiva italiana Superga di Gerlafingen.

La squadra si iscrisse al campionato dilettantistico svizzero: ci giocavano i giovani operai della Von Roll, immigrati dall'Italia. La Superga era la squadra degli italiani in Svizzera. Difendere i suoi colori riempiva il petto d'orgoglio come giocare in nazionale e seguire le sue gesta era come trovare un punto d'aggregazione, per sentirsi fratelli lontani da casa.

La Superga fece la parte del leone in quei tornei, conquistando successi dopo successi. Ma quello che più contava era rappresentare un indiscutibile polo di identità per gli italiani a Gerlafingen.

La Superga esiste ancora. Fra le sue file militano ormai anche giocatori svizzeri, segno di un'integrazione ormai avvenuta, anche se scorrendo le pagine del suo sito internet, interamente in tedesco, si trovano ancora molti nomi dall'inequivocabile radice italica: giovani nati e cresciuti in Svizzera, poliglotti e cosmopoliti, ma che credono che le umiliazioni e i sacrifici dei loro nonni sia meglio ricordarli, per sempre e a tutti. Anche giocando a pallone.

Sarebbe bello che se ne ricordassero anche certi italiani, negli stadi e fuori.